Eventi in Basilicata

Trapanaterra il 26 novembre a Potenza, “un’Odissea meridionale, una riflessione sul significato di «radice»”


Trapanaterra è un viaggio di rimpatrio, il resoconto di una famiglia del Sud distrutta da un destino ineluttabile. Lavoro, corruzione, potere, tradizione, familismo amorale, abbandono e identità culturale sono gli elementi che fanno continuamente staffetta nel testo.

I motivi che mi hanno spinto a trattare questi temi sono stati diversi. Forse quello principale è stato un senso profondo di malessere; come del resto accade spesso a chi scrive, ma soprattutto sentirmi fuori posto, caratteristica di chi è stato costretto a dover emigrare per cercare qualcosa che non ha trovato nella propria terra d’origine.

Quando un essere umano parte per cercare fortuna è come attendere un pasto dopo un lungo digiuno; poi, quando lo trova, inizia a mangiare e gli rimane in gola, nel cannarozzo, se poi pensa a quello che è stato costretto a lasciare”.

Così è partita una ricerca profonda sulla realtà del mezzogiorno intesa come un costante ossimoro. Eccomi giunto all’idea della partenza: “fuga” e della “restanza” che è un termine coniato dall’antropologo Calabrese Vito Teti.

L’essere rimasto, non è atto di debolezza né atto di coraggio, è un dato di fatto, una condizione, ma anche l’esperienza dolorosa e autentica dell’essere sempre fuori posto”.

Sostanzialmente in entrambi i casi si parla di sacrificio, sia per chi parte, sia per chi resta. Per quanto concerne la partenza, o meglio la fuga, ho subito iniziato a porre delle domande precise a me stesso essendo il diretto interessato, poi anche a persone che sono rimaste. Avevo bisogno di confrontarmi attraverso interviste, ricerche e sensazioni che suscitavano in me gli abitanti di quel luogo che io stesso ho lasciato, tutte le persone che la abitano e altre, invece, che trovando questa realtà “scomoda” per varie ragioni hanno deciso di abbandonarla.

Il fatto di dover fuggire e il fatto di dover restare, sono sostanzialmente cause di una condizione. La NOSTALGIA è l’altro elemento importante da me preso in considerazione per lo sviluppo e che poi è servito a rafforzare l’intero impianto drammaturgico, infatti, è stata considerata la malattia e la follia degli emigrati e quindi del loro mondo d’origine. La parola racchiude in sé due elementi: il primo è il suffisso algìa, che indica un dolore, una sofferenza, la parte che precede il suffisso descrive la causa di quel dolore.

Corrado Alvaro descrive la nostalgia come “del ritorno di uno che non se n’è mai andato”. Quando un soggetto ritorna per riallacciare il rapporto con le sue radici e scopre un luogo che vessa nel degrado totale che cosa accade? Le persone a lui care sono completamente diverse, quindi cosa accade nella propria psicologia?

Eccomi giunto a un altro elemento fondamentale (arena di questa vicenda familiare): Il Sud maledetto e il caso ENI. Inizialmente ero partito con un monologo, poi confrontandomi e collaborando con il mio compagno di scena Mario Russo e la regista drammaturga Rosa Masciopinto abbiamo capito che poteva diventare la storia di due fratelli. Uno che parte e l’altro che è costretto a rimanere.

Sono nati RIT e RES.

Mi ha sempre affascinato ascoltare i racconti delle persone anziane del mio paese, soprattutto dei personaggi strambi, buffi. Addirittura mi divertivo a imitarli; mi sono reso conto che questa è un’immensa risorsa. Avevo un bagaglio sconfinato di piccoli fatti ed eventi della civiltà contadina e non solo. Fatti reali, autentici. Ora: immaginiamoci di prendere tutto questo materiale e di portarlo avanti nel tempo… dalla realtà gretta contadina del mezzogiorno all’invasione del capitalismo industriale, con l’arrivo dell’ENI in Basilicata negli anni ’80, la quale ha portando degli effetti devastanti. Mi sono subito posto delle domande.

Com’era prima questa regione e com’è poi diventata? Com’erano i rapporti tra persone che la abitavano? Si stava meglio oppure peggio?

I due personaggi, RIT e RES sono i protagonisti di questo viaggio. A loro ho lasciato la parola, forse dare delle piccole risposte, ma soprattutto scatenare altre importanti domande. Quando RIT ritorna trova il fratello a lavorare in questa gabbia di tubi, metafora dell’unica alternativa possibile per poter sopravvivere in una terra che non offre niente. L’unica cosa che RIT chiede al fratello RES è un abbraccio (forte rapporto umano cancellato) impossibile. Ecco che inizia l’incontro – scontro tra i due, ripercorrendo il passato e rievocando l’elemento nostalgico in una continua ricerca antropologica. RIT scopre che tutte le persone a lui care non ci sono più, non a causa della natura ma dagli effetti devastanti di un “Mostro”.

Essendo un tema complesso e serio, confrontandomi con i miei compagni di viaggio, ci siamo resi conto della necessità di alleggerire tutto, utilizzando uno stile grottesco, ricercando sempre la misura dell’effetto tragicomico (Situazione che presenta, insieme, aspetti comici e tragici; per lo più con un’accentuazione ironica o scherzosa). L’intera scrittura ha subito un’evoluzione radicale passando per un lungo processo d’improvvisazione.

I due protagonisti hanno uno stretto rapporto con la struttura scenografica, la quale rappresenta il “Mostro”. Ho cercato di dare anche un senso drammaturgico alla scenografia molto forte, evidente. Mentre scrivevo pensavo costantemente all’antagonista e mi chiedevo: “quanto sarebbe bello se questa scenografia potesse parlare” nel vero senso della parola.

Dunque, abbiamo fatto sì che ciò accadesse, ma attraverso cosa? La musica, i suoni – rumori che poteva regalarci. Il linguaggio è un altro elemento di approfondimento secondo me. Ho utilizzato il dialetto non solo per la sua musicalità ma soprattutto per la sua autenticità. Mi permetto di citare Calvino secondo il quale il dialetto contiene dentro di sé un mondo più esclusivo e definitivo del ventre materno. Per Tullio de Mauro il dialetto è la lingua degli affetti. Dunque: quale miglior modo per poter raccontare questa storia?

Ho deciso di attraversare questo labirinto drammaturgico per riscoprire le possibilità totali dell’interprete. Dal principio della scrittura ho pensato agli elementi possibili per rafforzare la ricerca di un linguaggio attraverso la musica, la scenografia vista come un personaggio vero e proprio e infine le luci. Combinando questi elementi, attraverso la ricerca, ci siamo resi conto delle infinite possibilità.

Rimettere l’attore al centro è stata una scelta decisiva per portare in scena questo lavoro complesso, infatti, è tutto nelle mani dei due protagonisti della storia, nel senso che ogni elemento tecnico viene gestito dagli stessi attori. L’operaio che lavora all’interno di questa struttura industriale gestisce i suoni utilizzando una loopstation, creando tappeti sonori che accompagnano le singole scene, le luci rievocano gli spazi e gli ambienti con le sue figure, con i suoi paesaggi, le atmosfere alle quali siamo legati da un cordone ombelicale.

“Più che della mia terra, credo di aver beneficiato del mio habitat e cioè dei muri, dei soffitti, i suppellettili di casa mia. Ho certamente tratto vantaggio dalle vigne, dalle siepi, dai vicoli e dai ruscelli; li ho tenuti nel mio ventre”.

Dino Lopardo

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