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Tutti quegli “eroi” che avremmo voluto fossero persone normali


di Bruno Masino

Le ultime rilevazione dell’Istituto Superiore di Sanità (report ISS di aggiornamento nazionale del 30/03/2020), ci lascia un dato allarmante. I casi di infezione da SARS-COV2 registrati sono ben 8956, pari al 9% del totale dei casi diagnosticati, mentre i decessi sono stati 26. La distribuzione per fasce d’età fa rilevare come la maggiore concentrazione di casi si registri nella fascia 50-59 anni con ben 3108 casi, pari al 34,8% del totale.

Se poi si sommano i casi registrati nella fascia tra 40 e 69 anni la percentuale raggiunta è il 74,7%. Considerando la letalità, si osserva come la distribuzione per età nell’ambito del gruppo “personale sanitario” segue fondamentalmente quella della popolazione generale, anche se la letalità complessiva risulta essere più bassa di quella generale. Fatta questa doverosa ed utile premessa per comprendere il tributo sino ad ora pagato dal personale sanitario nel corso dell’epidemia, non si possono non analizzare i messaggi che questi dati ci lasciano e ci lanciano per comprenderne le ragioni e, soprattutto, pensare agli interventi indispensabili perché in futuro, in situazioni analoghe, non si abbia più a verificarsi un fenomeno di tale entità. Le ragioni che hanno inciso in maniera decisiva, a mio avviso, sono molteplici ed in concorso causale tra di loro. Metterei al primo posto una insufficiente cultura del rischio biologico. Quest’ultimo, come è facile intuire, non è l’unico ma sicuramente è il principale rischio professionale a cui sono esposti gli operatori sanitari.

Purtroppo, ed a mia esperienza, la insufficiente cultura del rischio è una criticità presente a tutti i livelli, da quello direzionale delle aziende sanitarie ed ospedaliere, a quello operativo, quest’ultimo costituito dal personale sanitario impegnato in maniera diretta ed indiretta nel processo assistenziale. Ma il livello di responsabilità si appalesa in maniera diversa tra i due livelli. Se da un lato in una parte del personale sanitario non c’è, forse, la giusta attenzione al rispetto di corrette procedure assistenziali che, tra l’altro sono anche responsabili di infezioni correlate all’assistenza, dall’altro molte direzioni considerano la sicurezza sui luoghi di lavoro come una pesante incombenza solo normativa e formale, mentre dovrebbe essere un valore presente costantemente in ogni decisione ed azione.

Tutto questo diventa poi il fattore che, in condizioni di stress del sistema come nel caso dell’epidemia COVID-19, porta a esiti drammatici della portata illustrata innanzi e, ahimè, ancora non definitivi. Non poco incidono anche problematiche connesse alle risorse di personale che costringono ad attuare modelli organizzativi che possono risultare rischiosi. Penso ai turni stressanti dovuti che concorrono inevitabilmente ad abbassare i livelli di attenzione degli operatori, costringendoli a velocizzare le procedure essendo impossibilitati a seguire quelle corrette. Questo accade perché bisogna dare tempestiva risposta ai bisogni clinico-assistenziali dei pazienti, sovente necessitanti di prestazioni salva-vita. Senza dimenticare situazioni sempre più frequenti di burn-out. Ma quello che è emerso in maniera drammatica, pur dovendo fronteggiare un evento che nessuno pensava potesse interessare l’umanità con una tale aggressività epidemiologica e clinica, è stata la non adeguata organizzazione dei servizi di prevenzione e sicurezza sui luoghi di lavoro nell’ambito delle aziende sanitarie ed ospedaliere.

Non si spiegano in modo diverso i mancati aggiornamenti dei documenti di valutazione dei rischi, l’assenza di procedure atte a gestire le emergenze, e la diffusa carenza di dispositivi di protezione individuale. Funzioni e compiti tutti in capo ai direttori generali delle aziende sanitarie e ospedaliere, in quanto individuati come datori di lavoro. Non valutare il rischio al fine di intraprendere le necessarie azioni preventive e correttive, non elaborare corrette procedure e non dotarsi di idonei dpi ed anche in numero sufficiente, significa, ed ha significato, mandare in guerra soldati senza armi e senza difese. Si è assistito nel corso dell’ultimo decennio ad una contrazione sempre più consistente di risorse da destinare al Fondo Sanitario Nazionale, accompagnata da una scellerata politica formativa, in particolare per il personale medico, pur in presenza di studi, valutazioni e previsioni che da diversi anni mostrano come la riduzione del personale, a prescindere dall’attuale epidemia, avrebbe creato grosse difficoltà a tutto il sistema assistenziale, e questo il sottoscritto lo ha vissuto sulla sua pelle unitamente ai colleghi di lavoro.

È importante che, superata l’epidemia, si faccia una serena e seria riflessione su ciò che essa ha rappresentato per tutto il sistema sanitario che, si badi bene, non è solo quello identificato con l’ospedale, ma che presenta pilastri importantissimi che vanno dalla medicina di base alla prevenzione. Credo che i principali insegnamenti che si debbano trarre debbano essere orientati a rimodulare l’offerta formativa in modo da essere rispondente ai bisogni reali.

Questo lo si potrà ottenere se si esce in maniera definitiva dall’ambiguità attuale che investe il Servizio Sanitario Nazionale, vale a dire la distanza tra l’enunciazione di un sistema che deve garantire i principi eccellenti sanciti dalla legge 833/78 e le azioni che vanno in direzione opposta e che hanno dato la sensazione che si volesse minare il sistema dalle sue fondamenta, come il potenziamento del secondo e terzo pilastro ha dimostrato.

Occorrerà anche ragionare sul recupero di una maggiore unitarietà ed omogeneità facendo un passo indietro rispetto al regionalismo esasperato. Ogni cittadino deve poter godere di pari dignità, pari diritti, pari equità ed accessibilità alle prestazioni sanitarie. Una particolare attenzione dovrà, poi, essere dedicata alla prevenzione. Abbiamo visto come in alcune regioni tanto elogiate per il modello sanitario adottato ed in cui l’impostazione culturale è stata solo basata sulla medicina curativa condita anche di una buona dose di business da parte del privato accreditato e non, la prevenzione abbia mostrato gravi carenze. Occorre sviluppare la cultura della prevenzione e, nella fattispecie, pensare seriamente a implementare modelli che mirino a formare adeguatamente il personale per affrontare le grandi catastrofi disegnando un modello organizzativo in grado di fornire le giuste risposte.

Oggi è stata la volta dell’epidemia da coronavirus, domani potrebbe essere un terremoto o, come nella nostra realtà, un incidente rilevante. Vorrei, inoltre, richiamare la necessità di modificare anche l’impostazione della governance delle strutture sanitarie. Forse è giunto il momento che si arrivi ad un doppio binario in cui il clinico faccia il clinico e non sia oberato di incombenze burocratico-amministrative che occupano molto del suo tempo che potrebbe essere più produttivamente dedicato all’assistenza, con recupero di risorse per tutto il sistema il cui core business, lo voglio ricordare, è produrre salute; mentre dall’altro lato immaginare una componente manageriale che si possa integrare con la prima, viste le sempre maggiori attenzioni agli aspetti economici e gestionali dettati dalle stringenti normative. Sarebbe, inoltre, utile che il sistema produttivo del Paese fosse ripensato anche in funzione delle grandi catastrofi. Non è pensabile che per le mascherine protettive così per altri dispositivi si debba dipendere dall’estero perché le produzioni sono state delocalizzate o, peggio, dismesse. Se così non fosse stato non avremmo avuto tutte le difficoltà di approvvigionamento riscontrate. E così per gli altri presidi e dispostivi di protezione.

L’augurio è che si colga questa drammatica occasione come opportunità per modificare le politiche sanitarie, quelle industriali, i modelli organizzativi delle aziende sanitarie ed ospedaliere ed inoltre, restando al tema in questione, favorire a tutti i livelli il giusto atteggiamento culturale rispetto al rischio biologico. Per quest’ultimo compito un importante ruolo potrà e dovrà essere svolto dalla formazione universitaria e non, e dai programmi di formazione continua.

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