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Su la maschera e…. le tute protettive.


RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO UN CONTRIBUTO DELL’AVVOCATO DANIELE GIUZIO

 

La lotta contro sua maestà il Corona Virus non passa solo attraverso la scoperta di un vaccino. Uno dei tanti problemi che affligge il nostro paese in questo momento è la carenza di mascherine e di tute protettive.

Il Governo italiano, passo dopo passo, ha aggiunto una stretta ulteriore alla circolazione di persone e mezzi, nell’intento di raggiungere un solo obiettivo: l’isolamento assoluto dei cittadini.

Evitare contatti tra gli stessi o anche le mere occasioni di contatto.

Come si può conciliare tale obiettivo con la necessità di aumentare la produzione di quei beni essenziali. La risposta non è facile e deve essere strettamente valutata in relazione all’obiettivo primario di far sì che il virus non abbia a camminare sulle gambe dei cittadini.

Lo sappiamo bene: dobbiamo stare a casa. Ma sarebbe possibile produrli stando a casa? La risposta può, e a parere di chi scrive, deve, essere affermativa.

Pensiamo a quante sartorie artigianali svolgono il proprio lavoro, nel proprio laboratorio, senza avvalersi di alcun dipendente? Ebbene sono tante, tantissime.

Perché, ove in effetti possa essere realizzato il minimo comun denominatore di avere la possibilità di lavorare a casa, questa categoria di artigiani non dovrebbe poter svolgere la propria attività lavorativa?

Pensate a coloro, tra questi esercenti, che già hanno il laboratorio annesso alla propria abitazione o che, avendo un garage o un magazzino annesso alla propria abitazione ben sarebbero in grado di poter lavorare da casa.

Un sarto ben potrebbe continuare il suo lavoro da casa, anche considerando che, già ad oggi, i depositi di magazzino magari gli consentono di non avere necessità di materia prima.

Chissà quanti scampoli di stoffe sono rimasti inutilizzati: ed è stoffa buona, di prima qualità. È Italiana! Perché allora non riconvertire la produzione anche di questi artigiani in relazione alle necessità del paese, indirizzandoli alla produzione di mascherine, di guanti, di tute protettive.

È vero, trattandosi di produzione artigianale si tratterebbe di produrre pochi pezzi al giorno, ma se si considera che persino i medici e gli infermieri o gli operatori del 118 sono rimasti senza tali strumenti essenziali di lavoro, allora è facile intuire che anche solo una mascherina può fare la differenza tra la vita e la morte. E le sartorie nel nostro paese non sono poche.

Se il Ministero della Sanità adottasse un protocollo unico in relazione alla produzione di quei beni così essenziali in questo momento, migliaia di sartorie a conduzione individuale ad oggi chiuse, potrebbero produrre, comunque, enormi quantità di materiale sanitario. Ci spieghi il Governo come vuole che debbano essere fatti questi prodotti, che caratteristiche devono avere, quali materie prime si possono utilizzare, ecc. ecc.

E soprattutto adotti un metodo di produzione semplice, unico, lineare, da applicare su tutto il territorio nazionale. Un tutorial, pubblicato sul web, sarebbe sufficiente. La produzione in serie può essere l’arma vincente in tempo di guerra. Così è stato nel corso del secondo conflitto mondiale per l’esercito americano in relazione alla produzione di mezzi corazzati.

A differenza di altre nazioni l’America scelse di puntare su un modello base di carro armato, lo “Sherman”. Era piccolo, poco corazzato, poco armato: non era in assoluto il migliore e non era nemmeno un carro pesante, dunque teoricamente destinato a soccombere di fronte ai più grandi carri armati nemici.

Ma la sua forza fu la duttilità, la capacità di adattamento a qualsiasi situazione, e, soprattutto, il numero: ne furono prodotti quasi cinquantamila nelle sue innumerevoli versioni.

Questa scelta di produzione consentirà all’esercito americano di avere sempre a disposizione pezzi di ricambio che non avrebbero dovuto essere smistati in relazione alle varie tipologie di corazzati in dotazione alle varie unità e ancor più consentiva di riciclare ogni pezzo di un carro danneggiato.

Produrre tutti la stessa cosa ed avere la certezza che giunga a destinazione: ecco l’idea semplice e vincente.

Un modello unico, su scala nazionale, per ottenere un prodotto efficiente e riciclabile.

E così mentre gli eserciti dell’asse lasciavano sul campo, abbandonati, le loro meraviglie belliche solo perché non in grado di sostituire un cingolo o un servosterzo, il piccolo “Sherman” continuò inarrestabile la sua corsa, sacrificandosi fino all’estremo: anche da quelli che potevano apparire completamente distrutti si poteva sempre prendere qualcosa.

Lo Sherman, in termini bellici, è il primo donatore di organi della storia e sopravviverà ancora per decenni dopo la fine del conflitto.

Produciamo allora mascherine, guanti e tute protettive artigianali in serie, tutte uguali, con stessi materiali, con le stesse caratteristiche: se si rompe un elastico non dobbiamo buttare via la mascherina, si deve poter cambiare l’elastico o poterne inserire uno di fortuna, anche uno spago se necessario.

Diamo la possibilità a migliaia di persone che lo fanno per lavoro, ma anche alle migliaia di persone che non sono professionisti ma che ben sanno usare una macchina da cucire, di poter produrre questi ormai vitali prodotti. Chi non ha avuto in casa la mamma o la nonna che hanno tirato su con la vecchia “Singer” un paio di pantaloni piuttosto che il vestitino di Pasqua? E quante “Singer” ci sono in Italia? Sono tante, tantissime.

Sia lo Stato a dare linee guida, a far partecipare i cittadini ad una lotta attiva contro il male che minaccia questo Paese, faccia loro sentire la sua vicinanza in un momento in cui si sentono disorientati, spaventati e soli. Dia loro un compito ben preciso, semplice ed efficace.

E consenta di avere anche solo 100 mascherine in più: le mascherine artigianali italiane.

Ieri a fronte della richiesta del Governo di 300 medici da portare in prima linea, hanno risposto in settemila.

Questa è l’Italia sig. Presidente del Consiglio! Settemila volontari hanno dato la propria disponibilità ad andare in prima linea, ad esporsi al fuoco di un nemico tanto feroce e crudele quanto invisibile e lo hanno fatto per il loro paese, e, soprattutto, per i loro fratelli che già lottano tra la vita e la morte. Prego Dio, come tutti gli italiani, che vegli su di loro.

Ma già una volta nella storia di questo paese i soldati sono stati mandati al fronte con le scarpe di cartone: speriamo che non accada di nuovo.

Sig. Presidente del Consiglio, si rivolga alle migliaia di sarte e di sarti italiani, agli studenti che studiano per esserlo un domani e anche alle mamme e alle nonne e a tutti coloro che sarebbero in grado, in casa propria, di fabbricare una mascherina o una tuta protettiva e dica loro come fare. E lo faccia adesso per favore. Subito.

Pensi solo a cosa vorrebbe dire per un medico di Milano o per un infermiere di Bergamo, indossare all’inizio del proprio massacrante turno di lavoro, non un sacco della spazzatura, ma una mascherina o una tuta, artigianale sì ma perfettamente efficiente, ove magari è scritto sopra: “Ciro Esposito, Sartoria di Napoli” piuttosto che “Concetta Nicosia, nonna di Palermo”.

Vorrebbe dire una sola cosa sig. Presidente: che nel 1861, anche se non proprio tutti erano d’accordo, è nata l’Italia, oggi, nel 2020, può nascere un popolo.

Di fratelli, appunto, come aveva sognato Mameli.

Il futuro è nelle nostre mani e posto che i cittadini italiani le mani in questo momento se le lavano spesso, speriamo che non sia il nostro Governo a lavarsi le mani e a non comprendere che da piccole cose, anche se apparentemente insignificanti, può esservi la differenza tra la vita e la morte.

Daniele Giuzio

 

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