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L’invenzione della resilienza: da una crisi può nascere un’opportunità?


Si sente molto spesso parlare di “resilienza”, un termine che viene pronunciato come uno slogan e che ha quasi un sapore chic. Esistono diverse “parole chiave” nella grammatica esterofila che colorisce il nostro linguaggio. Come resilienza appunto, ma penso anche al termine “governance”: parole che in concreto assumono dei significati differenti da quelli che vorrebbero farci credere. Non sono mancate, ovviamente, le critiche da parte di chi ha ravvisato una sorta di “impostura” di questa nuova terminologia, di matrice anglosassone, che nel fondo non si riferisce a nulla di chiaro. Vi invito a fare delle ricerche sul web, o a contattarmi per delle indicazioni bibliografiche in merito.

Tuttavia, in questo momento di emergenza, il termine è ritornato in auge, come spesso accade quando si verifica una catastrofe. “Resilienza” viene associato il più delle volte a “resistenza”. Dobbiamo esser resilienti, e quindi sviluppare “capacità adattive” a ciò che ci sta rovinando; dobbiamo esser pronti a resistere nei confronti di uno sconvolgimento esterno.

Ora, tenendo presente che l’attuale situazione va oltre la nostra comprensione razionale, e non entrando nel merito dell’origine del virus stesso, voglio attirare l’attenzione su alcune questioni importanti ed inquietanti al tempo stesso. Si, dobbiamo esser resilienti, ma nei confronti di cosa? Di un sistema sanitario che potrebbe collassare perché durante gli anni non è stato protetto a dovere? Della nostra incapacità di saper prevenire la diffusione del virus (anche non restando a casa)?

Come vedete, molto spesso la nostra resilienza è il frutto di politiche, modi di agire, usanze passate e consolidate nella nostra esistenza. Di uno stile di vita che ha promosso soprattutto l’attenzione “sul momento” piuttosto che “sul futuro”. In definitiva, il termine resilienza non è altro che un modo per dirci che dobbiamo “resistere” a quanto, fuori di noi, viene deciso per noi. Spesso si tratta di scelte sciagurate fatte da persone incompetenti, mosse dall’egoismo e dall’interesse personale, che hanno avuto ricadute sull’intera comunità.

E noi, qui in Val d’Agri, ne abbiamo di situazioni di questo tipo. Penso, ad esempio, al centro oli e agli sversamenti che hanno avuto luogo qui, risultato di “politiche aziendali” che non abbiamo scelto, ma che ci sono state imposte. Noi dobbiamo esser resilienti anche in questa situazione, e cioè quando scelte fatte da altri in nome del “progresso” hanno avuto delle ricadute a dir poco impietose su di noi e sulla nostra terra, che è il nostro bene comune. Esser resilienti significa, quindi, almeno per quanto riguarda queste problematiche naturali, accettare supinamente di riadattarsi dopo una calamità che ci è stata perpetrata senza il nostro volere.

Abbiamo sostituito la R di Rivoluzione con la r di resilienza”, ha detto una ricercatrice durante una delle ultime conferenze cui ho partecipato. Il punto è che il termine rivoluzione, invece, è stato spesso descritto con connotati negativi. Quando si parla di rivoluzione si fa subito riferimento alle armi, alle guerre civili, alle lotte violente. Ma il termine rivoluzione significa, basicamente, “cambiamento”. Questo è il significato che dobbiamo riscoprire. Non già adattarci, ma cambiare. E dare origine ad un cambiamento non implica l’uso della forza, ma la volontà di metterlo in pratica. E’ quanto mi auguro che possa scaturire da questa “crisi”: un vero e proprio cambiamento etico e civile.

Parafrasando un vecchio detto cinese, voglio concludere dicendo che da ogni crisi nasce un’opportunità. E da quella attuale quali opportunità si potranno aprire? Quella di richiedere un sistema (sanitario, sociale, ecc.) che funzioni prima, e non durante una catastrofe; quella di esigere più trasparenza e maggiore amore per il bene comune, da parte di chi ci rappresenta; quella di rivendicare un sistema economico più giusto ed equo, che non abbia solo come prospettiva la crescita a dismisura, come il capitalismo selvaggio ha fatto, credendo nel dogma del mercato e dando per scontato che “solo con le imprese si ha crescita”, mentre nella realtà la fortuna va in mano a pochi.

Ora è il momento di rivoluzionare il paradigma esistente e inaugurare un nuovo ordine che abbia al proprio centro la giustizia sociale, l’uguaglianza, la parità di condizioni e il disprezzo della mediocrità, dei furbetti, degli affaristi da quattro soldi e di quegli egoismi che ci stanno dividendo e, ancor più, allontanando progressivamente l’uno dall’altro.

 

di Francesco Petrone  Professore di Filosofia e Storia ed è l’autore del romanzo, uscito di recente, Le vene della mia terra.

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