Maria Carmela Blasi
Partigiana per amore di Giovanni
Maria si guarda intorno con l’aria smarrita e al tempo stesso incuriosita. Trema. Il padre, che la sta conducendo con brevi e lenti passi verso l’altare della piccola chiesa di campagna, cerca di rassicurarla con lo sguardo e con la presa ferma del suo braccio. Maria è ancora una bambina. Nell’età, non certo nell’esperienza di vita. Ha 15 anni, passati nelle campagne di Paterno, piccolo borgo del Comune di Marsico Nuovo, dove vive con la madre e i suoi dodici fratelli. Portano tutti il cognome della madre, Carolina Blasi, perché il padre, Antonio Napolitano, ha già un matrimonio alle spalle. È sposato, il divorzio non c’è ancora. E non può dare il proprio cognome ai figli nati dalla nuova unione.
La paura che avverte, mentre si avvicina all’altare, non è figlia dell’incertezza per la sua nuova vita coniugale. Maria si è sempre occupata della casa e dei suoi fratelli. Lo stato d’animo nuovo che l’assale e la rende insicura proviene dai sentimenti che avverte per l’uomo che ha deciso di sposare. Giovanni Taddeo è un insegnante, un maestro elementare. Lui è un uomo, ha 21 anni. È nato a Grumento Nova, abita a Viggiano, non molto distante da Paterno. Ed è lì che i novelli sposi andranno a vivere. È il 28 maggio del 1939, la domenica di Pentecoste, quando quella ragazzina, diventata donna troppo presto, giura amore eterno all’uomo che ha scelto come marito. Per celebrarla, quell’unione, era stato necessario avere il permesso della Curia di Potenza.
Trascorre poco più di un anno e il 16 luglio del 1940 Maria e Giovanni mettono al mondo il loro figlio, Vincenzo. Lei ora è una giovinetta che gioca a far la madre. Ma la guerra incombe e Giovanni, che è un sottotenente dell’esercito, viene chiamato a partecipare alla campagna di Russia con il 380 Reggimento di Fanteria “Ravenna”. Quando rientra da quella drammatica spedizione, nella primavera del 1943, l’unità di cui fa parte viene ospitata nella Caserma “Giuseppe Passalacqua” di Tortona, in provincia di Alessandria, al confine tra la Liguria e il Piemonte. Giovanni è lì, anche 1’8 settembre, quando la mancanza di ordini precisi getta nello scompiglio e manda allo sbando i militari italiani.
Il maestro elementare fa la sua scelta: non vuole aderire alla Repubblica Sociale Italiana. Si unisce ai partigiani, viene aggregato alla 58a Brigata Garibaldi “Oreste Armano”. Sceglie il nome di battaglia: D’Artagnan, uno dei moschettieri del romanzo che, qualche volta, ha raccontato ai suoi alunni. A Giovanni quel personaggio è sempre piaciuto, per la spavalderia, per il suo impeto. Anche per il suo coraggio. Grazie al suo grado militare, viene designato comandante di un distaccamento.
La Brigata “Oreste” entra a far parte della 4a Divisione Garibaldi “Pinan-Cichero” della sesta zona operativa e soggetta al Comando Militare Unificato Ligure del Corpo Volontari della Libertà. Per tutta l’estate di quell’anno, il 1944, più di una volta, i partigiani della Cichero si scontrano con le Divisioni repubblichine “Monterosa”, “San Marco” e “Littorio”: le battaglie nelle gole del Pertuso e sul Monte Allegranza in Val Trebbia vedono sempre prevalere i partigiani che si trovano lì per dare man forte al Battaglione “Casalini”. Grazie alla tecnica della guerriglia messa in atto in maniera impeccabile, si ritirano dopo aver inflitto dure perdite al nemico e occupato le posizioni a rastrellamento finito.
Maria, quando viene a conoscenza che il suo Giovanni è tornato ed è stato dirottato verso Tortona, è a Paterno, dov’è rientrata per stare con i suoi fratelli e per accudire meglio il piccolo Vincenzo, con l’aiuto della madre. Avverte, in quegli istanti, le stesse emozioni di quella domenica di Pentecoste in cui fu sancita la loro unione: ansia, paura, ma soprattutto un grande desiderio di stare al fianco di suo marito che la guerra le ha portato lontano troppo presto. Vuole raggiungerlo. Quel desiderio è una spinta emotiva troppo forte. Così, all’inizio di giugno, affida Vincenzo, che ha solo 4 anni, alla nonna materna e affronta il lungo viaggio con impegno e volontà.
Ha 20 anni, adesso, Maria e le idee chiare. Quando arriva nella zona di Tortona ha pochi elementi per raggiungere Giovanni, ma non si perde d’animo. Nel trovarlo, comprende ancor più di voler difendere quegli ideali che, da quando si conoscono, lui le ha trasmesso. Sono gli stessi principi che le ripeteva, da bambina, sua nonna Maria Antonia.
Si mette a disposizione del Comitato di Liberazione Nazionale di Tortona. Fa la staffetta. Inizialmente trasmette messaggi, poi trasporta armi e munizioni alla Brigata “Oreste Armano” e alla “Virgilio Arzani” che agiscono tra la Val Borbera e la Val Curone nella provincia di Alessandria. È convinta e consapevole di quella scelta e dell’obiettivo da raggiungere. E quando deve scegliersi un nome di battaglia per ridurre il rischio di essere individuata dal nemico, non ha dubbi: “Sarò Italia“, dice ad Aurelio Ferrando, il comandante Scrivia, che guida la brigata.
Maria è in continuo movimento: si sposta tra Cabella Ligure, il quartier generale della brigata, e le valli dove si sono accampati i partigiani. E qualcuno la nota, sospetta della sua attività partigiana. Braccata dai nazifascisti, si nasconde all’interno dell’ospedale civile di Tortona, con la complicità di alcune suore di clausura. Saranno le stesse religiose, insieme ad alcuni membri del CLN di Tortona, a permetterle di raggiungere, alcuni giorni dopo, quando il pericolo sembra scongiurato, un’altra località, Dernice, sempre in provincia di Alessandria.
Nell’ottobre del 1944 Maria riceve dalla brigata l’ordine di spostarsi in Val Borbera; viene assegnata al campo di lancio, il luogo dove gli aerei degli Alleati fanno arrivare viveri, soldi e munizioni. Farà la portantina, supportando tutti i distaccamenti.
E un giorno freddo di metà novembre di quello stesso anno, quando Maria è coinvolta in un vero e proprio scontro con i nazifascisti. I partigiani combattono testa a testa. Impegnano i nemici per tutta la giornata. Maria viene raggiunta da un proiettile al ginocchio sinistro. Una scheggia la colpisce al volto. Le lascerà segni che si porterà addosso — e nell’anima — per tutta la vita. La curano, ma non aspetta di guarire definitivamente. Qualche giorno dopo vuole partecipare alle perlustrazioni che i suoi compagni partigiani hanno deciso di compiere nei dintorni di Chiavari, Nervi e Novi Ligure. Vuol essere anche lei protagonista attiva di quella pagina di storia del nostro Paese.
In quei giorni Harold Alexander, generale delle truppe alleate, lancia via radio un invito ai partigiani affinché fermino ogni azione, in attesa di una successiva avanzata. Il comandante del Corpo Volontari della Libertà non lo accoglie e continua nelle azioni: il giorno dell’Immacolata i partigiani sferrano un attacco sulla strada rotabile che collega Serravalle a Genova. Tre giorni dopo, fanno saltare il ponte di Varinella per bloccare l’avanzata dei tedeschi verso Val Borbera. Ma quelli non demordono. Approfittando di questa pausa degli Alleati, aumentano i loro rastrellamenti: il 14 dicembre le truppe naziste ne avviano uno nelle Valli Borbera e Curone. I partigiani cercano scampo sui sentieri che portano in montagna. Sono costretti a camminare a lungo su cime innevate, con un freddo che raggiunge anche i 200 sotto lo zero. Hanno poco cibo, si nutrono di nocciole coltivate in quella zona e di pochi frutti selvatici che offre l’inverno. Trovano riparo a Pobbio, un piccolo borgo del comune di Cabella Ligure. Ma solo per poco. Presto vengono avvertiti che truppe di tedeschi e fascisti si stanno dirigendo proprio in quella zona per compiere altri rastrellamenti. È una notte gelida ma calma, quando lasciano il paese per trovare scampo altrove
La luna è accecante nel cielo terso. Rischiara tutta la vallata. Emana una luce che sembra smorzare il freddo di una notte di fine anno. È il 28 dicembre. Un giovedì. Sono le 3 del mattino quando una voce squarcia il silenzio. E poi un’altra e un’altra ancora che si rincorrono. “Mongoli e tedeschi”, “mongoli e tedeschi”: è il segnale che stanno arrivando i soldati del Turkistan che affiancano i nazisti. Da giorni si parla di loro, della loro ferocia e violenza. “Mongoli e tedeschi”, si ricorrono ancora le voci. La notte è fredda e non c’è un alito di vento. I rami degli alberi, ormai spogli, sono immobili. Né si muove una sola ombra, fino a che quelle voci non allertano i partigiani che riposano nei casali sparsi per la valle.
Dalle case, dai fienili, dai cascinali escono sagome di uomini in cerca di una via che li porti al sicuro. Ma dal buio si innalzano poi suoni in tedesco. “Alt. Actung. Aufgeben.” Arrendetevi è il loro senso.
La risposta ha il rumore sordo delle pallottole esplose da un fucile. I partigiani aprono il fuoco, ma è solo un primo tentativo di resistenza. Sanno bene che la loro posizione è sfavorevole rispetto a quella dei tedeschi. Devono ritirarsi, devono mettersi al sicuro. Una via di fuga è data dai campi circostanti. Ma la luna li illumina a giorno. E rischioso. Una soluzione non praticabile. Un gruppo di partigiani lo intuisce e si nasconde dietro un muro. Qualcuno tenta ugualmente la fuga.
I tedeschi cominciano a sparare. Giovanni Taddeo, D’Artagnan, viene colpito alla testa. Cade insieme ad altri compagni che stanno cercando di fuggire. È ferito. Un compagno se lo carica sulle spalle e riesce a portarlo a valle, di là verrà trasferito a Rocchetta Ligure dove c’è un ospedale partigiano.
Maria è lì, in mezzo a quella battaglia. L’avvertono che il suo Giovanni è stato colpito. Che lo stanno portando a valle. Lascia tutto in sospeso, anche l’angoscia personale. E raggiunge l’ospedale. Suo marito è grave e lì non ci sono gli strumenti per tentare un’operazione chirurgica.
Non riprende mai conoscenza e due giorni dopo, il 30 dicembre, muore. Maria è devastata dal dolore, tuttavia non cede. I compagni l’aiutano a seppellire Giovanni nel cimitero di Cabella. Pochi giorni dopo, nel gennaio del 1945, riprende la sua attività partigiana proprio nell’area di Rocchetta. È un inverno freddo, gelido, piovoso. Le intemperie non la scoraggiano, ma le lasciano un segno nel corpo. Si ammala di broncopolmonite e pleurite alla spalla sinistra. Viene ricoverata in quell’ospedale improvvisato di Rocchetta dove suo marito ha trovato la morte. A curarla è Tito Tosonotti. E un medico di religione ebraica, partito da Savona per sfuggire alle persecuzioni razziali. Resta ricoverata tre settimane, dal 4 al 25 gennaio. A prendersi cura di lei c’è anche Agostina, una suora che ai feriti porta conforto sanitario e religioso. Quando la dimettono non è guarita. Quella zona non è più sicura: i tedeschi continuano a fare incursioni e razzie.
L’ospedale dev’essere smantellato. Maria deve lasciarlo. Torna in azione anche se malata e provata nel fisico, decide di partecipare ai sabotaggi che orchestrano i partigiani. Nei primi giorni di febbraio, insieme a un partigiano che tutti chiamano Barba, fa saltare in aria un treno carico di armi e di munizioni che si trova nella stazione di Genova e destinato alle truppe tedesche a Montecassino.
Maria non si ferma un giorno. Fino a che non c’è la resa dei tedeschi. Il 30 aprile del 1945 lascia la lotta armata. Deve tornare a Paterno, dal figlio. Compie quel viaggio insieme alla salma del marito, del suo maestro Giovanni, che, riesumata dal cimitero di Cabella Ligure, dov’era stata sepolta, ottiene dal comandante della “Pinan-Cichero”, Scrivia, il foglio di via con foto personale autenticata e la data: 30 maggio 1945 a Serravalle Scrivia. Vincenzo ha 5 anni. Dev’essere accudito. Maria è sostenuta dalla famiglia. Alla fine del 1945 si sposa con un maresciallo dell’aeronautica militare, Michele D’Agrosa. Dalla loro unione nascono Dante Toni, Dora Pompea e Anna. Qualche mese dopo la cerimonia nuziale, la coppia si trasferisce a Palese, in provincia di Bari. Michele presta servizio all’interno dell’aeroporto militare. Passano gli anni, ma Maria continua ad avvertire le fitte che la vita trascorsa in montagna le ha procurato. Ha continue febbri. E i dolori alla spalla sinistra sono sempre più persistenti. Si fa visitare e le consigliano il ricovero al sanatorio “Cotugno” di Bari. Nel 1950 viene mandata dal Consorzio provinciale antitubercolare di Bari al Policlinico della stessa città: la sottopongono a una stratigrafia radiologica che evidenzia grosse caverne a quel polmone sinistro che da anni la tormenta. Nel 1952 è sottoposta a pneumotorace artificiale. Questa odissea non le vale il riconoscimento dell’invalidità di guerra: l’istituzione preposta gliela nega. Ma lei non s’arrende. Combatte fino a quando, a metà marzo del 1971, l’ Ufficio per il riconoscimento delle qualifiche e per le ricompense ai partigiani, istituito dal Ministero della Difesa, le assegna la qualifica di “partigiana combattente” che le appiana anche la strada per ottenere la pensione d’invalidità. Maria conserva l’animo della partigiana combattente anche quando quella vita della montagna è solo un ricordo che le fa male, e che ritorna ogni volta che prova a raccontarla ai figli e ai nipoti. Ma ha un carattere che non conosce la resa. Si rivolge, scrivendo di suo pugno, a ministri, onorevoli, al presidente del Consiglio e perfino al Capo dello Stato.
La sua battaglia legale comincia mesi prima. Scrive al presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. È il febbraio del 1970, gli racconta la sua odissea sanitaria: la pleurite del 1945, la tubercolosi qualche anno dopo.
«Ora vivo di medicine, non posso lavorare, né le mie condizioni economiche permettono una cura adeguata. Chiesi la pensione di guerra, a ottobre del 1969 fu fatta causa presso la Terza sezione della Corte dei Conti ove mi è stata rigettata. Sono molto malata e chiedo una grazia alla S.V. Illustrissima, che venga riesaminata la pratica.»
Prosegue ancora nel racconto della sua vita: «Avevo solo 17 anni [sic!] e mio marito morì in combattimento, sono stata una duplice vittima della guerra».
Torna a scrivere al Capo dello Stato tre mesi dopo. «Già un’altra volta l’ho importunata per lo stesso motivo di ciò che ora sto per chiederLe. Aspetto la famosa qualifica Partigiana da tempo ma finora nulla ho visto. Illustrissimo signor Presidente solo se Lei interviene in questa faccenda riuscirò ad avere ciò che mi spetta. E nello stesso tempo avrei una grande cosa da chiederLe, cioè una grazia, forse chiedo troppo. Vorrei parlare con la S.V. in persona per essere ascoltata della mia disgrazia. […] Spero che non l’abbia offeso se mi sono permessa di chiedere tanto.»
Deve aspettare un altro anno per vedersi riconosciuta la qualifica di “partigiana combattente invalida” e avviare la richiesta per il premio di solidarietà (solo nel dicembre dello stesso anno le segnalano che deve rivolgersi al Distretto militare di Potenza, per la concretizzazione della sua posizione) e della pensione di guerra . Maria Carmela Blasi, deceduta il 27 ottobre del 2005 a 81 anni, in tarda età è riuscita anche a riprendere gli studi che aveva abbandonato quand’era ragazza. Si è prima diplomata e poi laureata in giurisprudenza. [Tratto dal Libro di Emilio Chiorazzo (ed. Edigrafema) – I LUCANI DELLA RESISTENZA ]
La resistenza è patrimonio di chiunque ami la libertà e di chiunque riconosce i valori della nostra Costituzione, per la cui conquista molti giovani hanno dato la vita gridando “Viva l’Italia Libera” mentre venivano fucilati dai “nazifascisti repubblichini” [Rocco Vertone ventottenne di Spinoso]. Talmente bella da rendere l’Italia così libera al punto che oggi consente alle massime cariche dello Stato di omettere di dichiararsi antifascisti. I Lucani, come in altre occasioni, quando hanno dovuto scegliere da che parte stare, hanno scelto di stare dalla parte giusta della Storia.
E delle tante storie dei Partigiani Lucani si può venire a conoscenza dai racconti di Emilio Chiorazzo nel suo libro edito da Edigrafema
Gianfranco Massaro – Agos _ 25 aprile 2025