Una delle metafore più affascinanti si è rannicchiata, durante il secolo scorso, tra le pagine de “La forma del tempo”, libro del critico d’arte americano George Kubler.
“Conoscere il passato è un’impresa altrettanto stupefacente che conoscere le stelle”. Un’affermazione, questa, che lì per lì fa riflettere, emana astrazione, casualità. Sembra contenere quell’allegorica banalità racchiusa nella noiosa generalità della vita. Eppure solo gli occhi più attenti ne possono scorgere il vero significato.
Il tutto ha una spiegazione logica, scientifica addirittura. Infatti il flusso inarrestabile della storia raggiunge la sua compiutezza quando diviene passato. E’ solo lì, nell’istante concluso, nell’attimo cristallizzato, che un evento può trovare un riscontro ed essere analizzato. Per le stelle è lo stesso. Luce passata di astri estinti o remoti raggiunge gli occhi degli astronomi solo dopo anni, quando ormai ha perso l’identità fenomenica ed è entrata a far parte della grande rete della storia delle cose. Tutto ciò per arrivare a dire che lo storico e l’astronomo svolgono pressocché lo stesso compito: ritrarre il tempo.
Ma è davvero possibile farlo? E’ davvero possibile riconoscere nell’eterna trasparenza dell’esistenza i tratti somatici del tempo, dell’entità più fuggevole, ideale e ingannevole che l’animo umano sia in grado di percepire?
Prove tangibili testimoniano che sia possibile. Si tratta delle opere d’arte, riconosciute dai più come “pezzi di divenire immobilizzato” disposti, in base alla loro collocazione, in densi campi di gravitazione magnetica. Perché è così. L’esistenza ha voluto che nascessero individui in grado di mediare tra la logica e l’insensatezza, tra la realtà e la percezione, divenendo custodi della sensazione, in bilico sull’orlo del baratro della sofferenza. L’eccezionalità sta tutta lì, nel saper soffrire con consapevolezza e trasformare il proprio dolore in qualcosa di più grande, di irraggiungibile, di così terribilmente prezioso. L’identità, di chiunque essa sia, si costruisce in questo modo, passo dopo passo, riflessione dopo riflessione, attendendo pazientemente il momento adatto a cogliere la risposta di cui si è alla ricerca, proprio come avviene con le stelle cadenti.
Non tutte le notti, tuttavia, sono piacevolmente stellate. Alcune si presentano nel manto più buio e freddo, tanto da portare i meno coraggiosi a ritirarsi, a smettere di guardare il cielo. Eppure c’è chi resiste, chi non si arrende, chi continua a coltivare speranza in una solitudine familiare, in compagnia dell’unica e sola consapevolezza di essere, aspettando di vedere una caduca scia luminosa per la sola voglia di esprimere un desiderio, di continuare a credere in qualcosa.
Gli artisti sono così, ed è soprattutto grazie a loro se oggi siamo in grado di vantare una nostra identità, per quanto macchiata e indebolita dalla nostra stessa natura. Un bagaglio culturale, il nostro, racchiuso in segni, pennellate, colori sempre diversi, onorevoli portatori del significato di estesi lassi di tempo, espressione di quel sentire tipico dell’essere umano declinato dalla sorte nelle sfumature più disparate e irregolari. E’ così che i flussi temporali vengono meticolosamente scanditi e disposti ordinatamente nei numerosi cassetti delle epoche.
Tuttavia l’arte non è innocente. Lo dimostrano le parole di Wim Wenders, artista, regista e fotografo tedesco, il quale afferma che “l’atto stesso di fermare qualcosa è potenzialmente violento”. Tale frase, riferita in questo caso al clic della macchina fotografica, può essere trasposta su un piano molto più ampio.
Si pensi all’atto stesso del dipingere qualcosa. L’animo umano percepisce una sensazione, che provenga dal suo interno o dall’ambiente circostante. Una volta individuata la sua preda, la osserva attentamente, proiettandola nella sua mente. Dopo di che prende la mira e la colpisce mortalmente, facendola cadere sulla sua tela, esattamente nel posto giusto, lasciandola sanguinare e macchiare il luogo in cui giace fino ad esalare l’ultimo e sofferente respiro. Nasce così un’opera che potrà essere compresa e ammirata oppure derisa e abbandonata alla polvere del tempo.
In ogni caso, qualcosa di meraviglioso è accaduto: un’impressione di vita è stata sottratta dalla cerchia delle cose mortali ed inserita in quella elitaria dell’eterno. Nel mare della più assurda insensatezza che è la vita, un petalo di senso ha preso forma, ha cominciato a estendersi, per arrivare a toccare i confini dell’infinito, lasciando stupefatti gli occhi di chi è riuscito a scorgerne il senso, traboccanti di venerazione e al contempo consapevoli di star ammirando qualcosa di incommensurabilmente grande, di esserne inevitabilmente entrati a far parte.
Sensazioni, queste, che lasciano i piccoli animi umani in preda al più grande sgomento, impreparati ad accogliere qualcosa che riesce a valicare i confini dell’invalicabile. E’ proprio per tale senso di disorientamento che alcune popolazioni quali gli Aborigeni non si lasciano fotografare e provvedono a far sparire ogni traccia delle persone defunte, consapevoli del fatto che ogni ritratto, ogni riferimento possa vivere al di là della persona, oltre ogni fenomeno che loro sono in grado di cogliere, andando così a consacrare l’abilità di riprodurre la realtà e a prostrarsi dinanzi ad essa, dichiarando apertamente di non essere capaci di sostenerne il peso.
La storia delle cose trova così una cornice, un senso di finitezza, lasciando le sue tracce sul lungo sentiero della vita, certa dell’esistenza di chi sarà pronto a seguirle.
Miriam Cardone