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Pratiche pascolo “tradizionale”: incontro a Viggiano con Presidente Nazionale Dino Scanavino

Le pratiche di pascolo “tradizionale”,  condotte cioè in conformità alle consuetudini e usi locali, ampiamente diffuse specie al Sud e nelle aree interne, devono essere riconosciute prima ancora che dall’Unione Europea dal Governo Italiano. Per questo porremo al Ministro Martina questo tema che è strettamente legato a quello della burocrazia. Lo ha sostenuto il Presidente nazionale di Cia-Agricoltori Dino Scanavino concludendo oggi a Viggiano (Potenza) un incontro con tutte le strutture regionali della Cia-Agricoltori interessate al problema con la presenza di amministratori regionali tra i quali l’assessore regionale della Basilicata all’Agricoltura Luca Braia.

Scanavino ha ricordato che la Cia ha inviato un documento al coordinatore degli assessori regionali all’Agricoltura Di Gioia e a tutti gli assessori regionali all’Agricoltura per sollecitare iniziative su un tema che – ha sottolineato – si riferisce ad una serie di norme e disposizioni varate dal 2014, che hanno creato un vera gabbia burocratica per il sistema amministrativo. Già il fatto che siamo a discutere di questo problema piuttosto che di filiere per la zootecnia e quella da latte, di infrastrutture, della prossima programmazione europea che è alle porte, è un’assurdità.

Il presidente della Cia ha anche sottolineato che il sistema agroalimentare italiano può contare su una biodiversità straordinaria di queste aree del Sud dove il nostro slongan “innovazione per un’agricoltura sostenibile” diventa pratica quotidiana di agricoltori ed allevatori. Ma, innanzitutto, la politica deve liberare il mondo agricolo dalla burocrazia.

L’agricoltore – è stato evidenziato – paga alla burocrazia in media due euro ogni ora di lavoro, 20 euro al giorno, 600 euro al mese, 7200 euro l’anno. Un “peso” opprimente che costringe ogni impresa a produrre materiale burocratico cartaceo che messo in fila supera i 4 chilometri. Non basta. Occorrono otto giorni al mese per riempire i documenti richiesti dalla Pubblica amministrazione centrale e locale. In pratica, cento giorni l’anno. Un compito che difficilmente l’imprenditore agricolo può assolvere da solo e che, quindi, nel 65 per cento dei casi è costretto ad assumere una persona che svolge questa attività e per il restante 32 per cento si rivolge a un professionista esterno, con costi facilmente immaginabili. Un dato emblematico che conferma le difficoltà dei produttori davanti al “mostro” burocratico, secondo quanto denunciato nell’incontro. Una situazione, quindi, allarmante che crea insormontabili problemi all’imprenditore che non intende certo sottrarsi alla legalità dei controlli, solo che per lo smaltimento dei reflui o dei nitrati, per l’adeguamento di stalle e laboratori lattiero-caseari sollecita azioni dirette delle Regioni attraverso fondi delle misure del Psr 2014-2020.

Secondo un sondaggio della Cia, oltre il 90 per cento degli agricoltori ha denunciato ostacoli e difficoltà per la propria attività a causa della burocrazia e chiede, quindi, una semplificazione amministrativa e fiscale che è ritenuta un fattore indispensabile per lo sviluppo. Proprio a causa di questo “peso”, il 25,5 per cento delle aziende agricole del nostro Paese ha messo da parte progetti di ammodernamento, innovazione e ricerca, il 21,5 per cento non ha compiuto alcun tipo di investimento, il 18,7 per cento è stato costretto a ridurre le coltivazioni. Sempre nel corso dell’anno passato ogni mese le aziende agricole italiane sono state costrette, in media, a impiegare dalle cinque alle sei giornate di lavoro per svolgere gli adempimenti amministrativi. Il 28 per cento -rileva l’indagine della Cia- ha detto di aver dedicato dalle tre alle quattro giornate alla burocrazia, il 34 per cento dalle cinque alle sei giornate, il 38 per cento oltre le sei giornate.

Nell’ambito della PAC – Politica Agricola Comune – 2014/2020 la definizione di prato – è stato denunciato nell’incontro – ha subito un’evoluzione. Nello specifico, il Decreto ministeriale 6513 del 18 Novembre 2014, ha apportato alcune rilevanti novità nella gestione delle superfici a pascolo, in particolare per consentire l’uso di superfici boschive ha introdotto la possibilità per le Regioni di indicare con il codice 650 attribuito per singola particella, alle occupazioni del suolo dichiarate come Pratiche di pascolo riconosciute come uso o consuetudine locale, sinteticamente note come PLT – Pratiche Locali Tradizionali.

Il quadro normativo attinente alle PLT, prevede l’obbligo per le Regioni di comunicare  entro il 31 Ottobre di ogni anno, i dati particellari con le indicazioni delle PLT, per singola particella. Agea, attraverso il SIPA (Registro telematico dei pascoli), aggiorna entro il 30 Novembre dello stesso anno della comunicazione delle Regioni, con dati che impattano con la domanda unica dell’anno successivo. Questo obbligo quindi per le Regioni è scattato dal 2015 ed è tutt’ora attivo.

L’impatto del DM 1420, sulla gestione delle superfici pascolative – a parere della Cia – è stato devastante da un punto di vista applicativo e degli oneri burocratici sul sistema di relazione tra Regioni e AGEA. Nel 2015 e nel 2016, per consentire una messa in equilibrio del sistema le Regioni in proporzioni variabili da Regione a Regione hanno utilizzato dati storici, che hanno consentito di rendere utilizzabili, in qualche modo, le superfici pascolative dove il dato dichiarativo dell’allevatore esprimeva  una tara del 50% che rende ammissibile al pagamento.

Tutto ciò pone il concreto rischio che migliaia di aziende zootecniche vedano non pagate nel 2017 le loro superfici (titoli) e che AGEA, che ha accesso già, una anomalia sui fascicoli interessati da PLT non riscontrate, proceda  ad un recupero per il 2015 e 2016 con una danno enorme per gli equilibri economici di produzioni di grande importanza per la nostra agricoltura e zootecnia.

Le contestazioni effettuate dai  Servizi della Commissione – ha sottolineato Luciano Sileo, della Cia Basilicata (Ufficio Zootecnia) – pongono l’esigenza di ripensare in maniera più ampia il nostro scenario di applicazione della PAC su questo settore. In primo luogo mettere tutto il peso politico e tecnico possibile sul concetto che una PLT, per  propria natura, non dovrebbe avere bisogno di una verifica di campo puntuale in quanto la valutazione che svolge la Regione si basa su una conoscenza delle prassi e delle attività di pascolo svolte dalle popolazioni locali nei decenni  se non nei secoli. Crediamo inoltre che – ha aggiunto  – le difficoltà trovate dalle Regioni nell’interpretare gli obblighi di comunicazione imposti da un DM 6513/14 e successive modifiche, Decreto, ricordiamo passato al vaglio anche dello Stato Regioni prima della sua approvazione, sia stato un vero passo falso del nostro Paese, in termini di applicazione della PAC con la sottovalutazione degli impatti tecnici e amministrativi, oltre alla difficoltà di applicazione delle norme. La gestione di queste attività va normata ma con scelte tecnicamente percorribili, burocraticamente sostenibili in termini economici e rese comprensibili dagli agricoltori.

 

 

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